L’arte da parte: il caso Banksy

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L’idea persistente del culto dell’immagine nella società moderna è alla base dei suoi molteplici aspetti, come il rapporto tra pubblico e artista. Questo in particolare è ricco di controversie in quanto l’importanza di un’opera raramente è correlata al suo significato ma più spesso dipende dal nome dell’autore che l’ha ideata. Banksy ha dato prova di ciò con la sua arte sovversiva.

Per chi non conoscesse Banksy, parliamo di uno degli artisti più importanti degli ultimi anni, famoso per la sua arte ricca di satira e controcorrente che spesso rivela un’aspra critica verso le diverse problematiche sociali che caratterizzano la nostra epoca; altro aspetto a renderlo interessante agli occhi del pubblico è la sua identità nascosta, infatti attualmente nessuno sa chi si nasconde dietro al suo nome d’arte né se sono più artisti a collaborare per la stessa causa. Proprio questa sua peculiare caratteristica ha creato di recente non poco imbarazzo: l’artista infatti il nove maggio si è recato a Venezia in occasione dell’inizio della Biennale d’Arte, decidendo di contribuire a suo modo all’evento. Banksy così espone in strada un insieme di tele, che condannano i traffici delle grandi navi da crociera nella laguna veneziana, impedendo il lavoro dei gondolieri e stonando con la bellezza storica della città. Poco dopo aver esposto l’opera, l’artista viene notato dai vigili ed è costretto a ritirarla ed ad allontanarsi poiché privo di autorizzazione. Azione lecita in fin dei conti anche se opinabile ma il punto arriva adesso; non appena Banksy ha rivelato quanto accaduto, il sindaco di Venezia lo invita “in municipio” affermando di non sapere che ci fosse lui dietro la faccenda, cercando così di ritrattare per sfruttarne la fama. In questo modo il nome altisonante dell’artista ha prevalso sul significato della sua opera, tra l’altro in disaccordo con le direttive comunali che permettono le tratte alle crociere in quelle acque. Ecco ciò di cui l’arte è vittima in questa epoca: coerentemente all’ideale del culto dell’immagine, l’opera viene spesso tralasciata o facilmente dimenticata, e lo spettatore limita la propria attenzione solo verso l’artista che l’ha compiuta e se questo è già conosciuto sicuramente anche la sua creazione meriterà altrimenti, se non è noto, questa non verrà considerata. A testimianza di questa teoria sono inoltre molti i casi in cui artisti prima di presentare una propria opera hanno impiegato del tempo per costruire su di sé un personaggio per essere facilmente riconosciuti ed attirare il più possibile l’attenzione; lo stesso Banksy ha creato intorno a sé una figura riconoscibile seppure la sua vera identità rimane celata. Uno dei motivi alla base di questo atteggiamento è sicuramente da ricercare nella volontà di spingere la propria opera il più possibile alla vendita. Esattamente la vendita, perché se c’è qualcosa che più è legato al culto dell’immagine ai giorni nostri è il denaro e la stessa commercializzazione dell’arte ha avuto bisogno di rendere vendibile l’artista. E’ ovviamente giusto cercare di ricavare economicamente dalle proprie fatiche artistiche puntando sul proprio nome ma non bisogna anteporre ciò alla creazione stessa, qualunque essa sia. Se ciò avvenisse, non solo verrebbe penalizzato l’impegno messo nell’opera, condizione imprescindibile per la sua qualità, ma si spingerebbe alla produzione mediocre della stessa, finendo inevitabilmente per abbassarne la capacità di avere un impatto sociale. A fronte di questo problema, il rischio è consegnare in futuro una cultura arida e priva di fondamenta che non permetterà l’evoluzione dell’arte.

La malafede va in scena ad Aversa

“Ci si mette in malafede come ci si addormenta e si è in malafede come si sogna. Una volta realizzato questo modo d’essere, è altrettanto difficile uscirne, come svegliarsi; la malafede è un tipo di essere nel mondo come la veglia e il sonno, che tende per se stesso a perpetuarsi.”

L’essere e il nulla, Jean Paul Sartre

Ripercorrendo i passi del filosofo francese Jean Paul Sartre, la malafede (dal latino “mala fides”), in quanto unità di coscienza, non può che essere intimamente congenita all’uomo. Essa si sbroglia dalla “umana, troppo umana” matassa della menzogna, con impudica irriverenza la trascende, collocandosi nell’olimpo dell’intrinseca essenza umana. La menzogna, infatti, scaturisce dall’interno, è l’atto di mascherare se stessi, fregiandosi di inganni e fallacie, di alterare la propria immagine edulcorandola; è sagace espressione della “coscienza cinica”, consapevole di occultare la nitida verità. La malafede, al contrario, si cesella come una mastodontica bugia che l’uomo incoscientemente racconta a se stesso per tutta la sua vita, nel tentativo di sfuggire alla condanna della libertà, che lo conduce nelle sabbie mobili di una piena responsabilità.

Ed è proprio al germe della mala fides sartriana che attinge la singolare iniziativa del Collettivo Malaterra: antinomicamente si pone la verità, l’uomo che presta fede alla sua iridescente interiorità e ad essa docilmente obbedisce, declinandola in sublimi forme d’arte. E l’arte, questa eccentrica effigie dei sentimenti umani, è l’indiscussa protagonista dei quattro incontri del suddetto Collettivo, due dei quali avranno luogo presso il locale Civico 103, sito in Aversa, sabato 19 e domenica 20 gennaio.

Sabato 19 si darà spazio ad una mostra d’arte figurativa e d’installazione, seguita da uno spettacolo teatrale in cui saranno interpretati svariati testi poetici. Domenica 20 sarà la volta della lettura di alcune considerazioni espresse dagli spettatori e contenute in un quaderno messo a loro disposizione.

I precedenti eventi, svoltisi sabato 12 e domenica 13 gennaio, hanno ricalcato le orme della poesia attraverso un reading di componimenti poetici inediti, scritti dagli stessi membri del Collettivo, e della danza, dando vita ad uno straordinario spettacolo musicale.

Il Collettivo Malaterra, come afferma uno dei fondatori Giovanni Vanacore, nasce come un’aggregazione di artisti, spronati dall’encomiabile obiettivo di divulgare l’ammaliante verbo dell’arte nel contesto di una mala terra, barbaramente molestata, al fine di riscattare il valore catartico di questa Musa, attraverso le manifestazioni di chi la crea e di chi si abbevera alla sua fonte. E proprio un territorio così braccato e perseguitato come quello dell’agro-aversano, ribattezzato tristemente come “terra dei fuochi”, ha dato luce ad un nobile progetto che continua a crescere fin da maggio dello scorso anno.

“O uomini, ah! uomini miei
Vi nutrono di false chiacchiere,
mentre avete bisogno di pane e carne.
per domare i crampi della fame.”

Nazim Hikmet

Vi aspettiamo il 19 e il 20 gennaio presso il Civico 103 art gallery alle ore 21.

Clara Letizia Riccio

Pablo Picasso, il messaggio

picassoDagli albori del cubismo al capolavoro “Guernica”, ricostruiamo la rivoluzione del grande artista spagnolo, a cavallo tra passato e presente

Il Salon d’Automne è un’esposizione d’arte che dal 1903 in poi venne allestita a Parigi: è un allestimento che profumava di rivoluzionario, perché voleva farsi portavoce della rottura dei salonstradizionali, improntati sul rigore accademico, sulle insistenze tradizionali. È a partire da qui che il mondo non sarebbe stato più lo stesso: a testimonianza che prima ancora che la politica e le guerre siano il pensiero e la cultura ad alzare il vero vento della modernità.

I primissimi anni del Novecento aprono la strada a nuove e diverse prospettive di studio che hanno per oggetto l’uomo e le sue categorie mentali, dalla psicanalisi di Freud alla relatività di Einstein e Bergson: un’eredità che viene raccolta a piene mani da uno spagnolo di Malaga emigrato a Parigi, tale Pablo Ruiz y Picasso. Pablo allora è un ventenne che disegna da quando è neonato, da quando cioè decise – stando a quanto si racconta – di riservare al nome della matita («lapiz» in spagnolo, che lui chiamava «piz») la sua prima parola pronunciata, contro ogni convenzionale aspettativa. Da subito si rivela un disegnatore eccezionale, con una dote ritrattistica fuori da qualsiasi schema, che lo spinge a realizzare a soli sette anni il primo quadro, El Picador (Il Pittore): il destino muove la piccola mano di un autoritrattista del tutto inconsapevole.

Dopo essersi assicurato il primo riconoscimento di livello nazionale presso l’Accademia Reale di Madrid, Pablo decide di salire su un treno e lasciare una realtà che di giorno in giorno gli va sempre più stretta. Nel 1900 è già a Parigi – a Montmartre per l’esattezza -, dove, ospite di un amico pittore, incontra un mercante d’arte di Barcellona che gli offre 150 franchi mensili in cambio dei suoi quadri. È così che si guadagna da vivere, anche se gli sarebbe bastato nutrirsi d’arte, da Toulouse-Lautrec a Degas, scivolando di volta in volta tra le braccia dei primi amori parigini, da Fernande a Eva, che morirà nel 1915 lasciando un vuoto enorme che Pablo proverà a colmare – di nuovo – con l’arte. L’incontro col poeta Cocteau lo avvicina al mondo della scenografia e dei Balletti Russi, cilindro dal quale esce Olga Kokhlova, che sarà presto moglie e musa. È la prova che la miglior cura per una vita ingannata è seminare le proprie passioni, investendo sul destino e tenendo a mente il proprio obiettivo: che nel caso specifico di Picasso è guidare la cultura europea verso orizzonti del tutto nuovi.

Qualcosa è già cambiato, nel 1907, quando le linee descrittive e a tratti espressioniste dei periodi blu e rosa lasciano il posto a geometrie più accentuate, diremmo squadrate: il perché sta nel senso della ricerca, non più interessata a rendere le figure per quello che sono fisionomicamente, ma a restituire l’«immagine fondamentale», semplificata nella sua essenza. Del resto, tutto è solidità della forma prima ancora che morbidezza della linea. È con questa retrospettiva che Pablo ritrae cinque donne di un bordello della malfamata via Avignone di Barcellona: lo spazio è stravolto, la profondità sparisce, il volume dei corpi si fonde, mescolandoli uno con l’altro. È la geometria del Cubismo. La stessa che, proprio attraverso il filtro de Les Demoiselles, influenzerà da quello stesso anno un certo Georges Braque, sancendo la nascita di un sodalizio artistico che avrebbe indelebilmente segnato la storia del primo Novecento.

L’arte è forse la più alta manifestazione della cultura proprio perché si inserisce fra le pieghe di un pensiero, e solo il pensiero può spiegarla, e anzi, prima ancora, rivelarla nella sua sostanza. Pablo capisce che l’uomo è coscienza che si dilata in uno spazio che, interagendo col fattore-tempo, muovendosi cambia inesorabilmente: l’intuizione è merito di Einstein, che per primo dimostrò il rapporto tra la contrazione e dilatazione della massa e la sua velocità di movimento. Lo scopo di Picasso e Braque diventa così la riproduzione della «quarta dimensione» temporale, attraverso la geometrica scomposizione degli oggetti che si muovono di per sé o che muoviamo noi con la percezione del nostro punto di vista: tutto è studiato con rigore matematico, per cui da un iniziale step di scomposizione (cubismo analitico) si arriva alla fase finale della ricomposizione ordinata (cubismo sintetico).

Spagna, 17 luglio 1936. Il potere centrale di Madrid, concentrato nelle mani di un Fronte Popolare in cui convergono forze di sinistra, comincia a vacillare, e poi soffoca, collassa, si sgretola, sotto il colpo di Stato ordito dal general Francisco Franco. Pablo si sente particolarmente coinvolto nella vicenda: parigino d’adozione, la Spagna resta la sua terra. Uomo e artista, la sua dote gli mette a disposizione una corsia preferenziale per manifestare tutto il suo disappunto. È una tela enorme, che nella sua orizzontalità descrive l’esplosione del dramma in bianco e nero, una cornice dove la speranza lascia spazio alle grida e al disordine, dove il buio condanna la luce e sentenzia la sua totale assenza: Guernica, immaginario della strage dell’omonima cittadina basca caduta sotto i colpi dell’aviazione nazista. Otto metri di racconto temperato che già dalla sua prima comparsa all’Esposizione Universale parigina del 1937 traduce l’accusa universale alla guerra e a ogni forma di dispotismo, un inno alla libertà che per esser pronunciato chiede il pegno della disgrazia. Un messaggio consapevole che deve rendere consapevoli: in risposta ad una guardia tedesca che in visita al suo studio guardò interdetta il quadro chiedendo «ha fatto lei questo orrore?», Pablo rispose che «non io, siete stati voi».

Questo sancisce il punto della nostra riflessione finale: l’attualità di Guernica. Dovremmo avere tutti più rispetto per la storia. Relegarla alla memoria o consegnarla ai racconti di un libro non basta, perché la storia è vita, la vita è storia, identità perfetta a spiegare un continuo scambio tra presente e passato, ricordo e attualità. Così pare che a dividerci dalla guerra civile, oltre agli anni – ottanta, tondi tondi – non sia altro che un muro logorato dalla disfatta del malcontento e del dramma, dalle cui crepe entra la storia, col suo respiro caldo che ne testimonia la vita, la presenza.

Non è provocazione ma cronaca. Giusto pochi giorni fa il commissario europeo per il bilancio e le risorse umane Günter Oettinger ha paventato, tra paure e sospetti, «il rischio di una guerra civile». Con le giuste proporzioni e la dovuta cautela, la folla assediata del Guernica si trasforma in quella degli oltre cinquecentomila manifestanti radunati per le strade di Barcellona in attesa del referendum.

Un messaggio fatto di disordine e scomposizione, tra le noie di oggi e quelle di ieri, con alle porte un nuovo potenziale conflitto su scala internazionale guidato dalle massime potenze economiche. La speranza è che si possa parlare di una situazione rientrata, sintetizzata in un ordine sublime: che ci aiuti, magari, l’amore per l’arte.

Sarà utopia, ma certe volte la speranza riesce a vincere anche sulla ragione.

Cezanne, costruire con il colore

cezanne1-gardanne-2Il lavoro di Cézanne è difficile da inscrivere in un unico movimento artistico: egli si avvicinò inizialmente alla corrente impressionista, ma la sua aderenza al movimento fu però sempre distaccata.

La pittura di Cézanne seguiva già agli inizi un diverso cammino che la differenziava nettamente da quella di un Monet o di un Renoir. Mentre questi ultimi erano interessati solo ai fenomeni percettivi della luce e del colore, Cézanne cerca di sintetizzare nella sua pittura anche i fenomeni della interpretazione razionale che portano a riconoscere le forme e lo spazio. Egli era solito lavorare lentamente e istintivamente, creando un senso di profondità e solidità non attraverso la prospettiva o altre tecniche convenzionali, ma attraverso variazioni tonali estremamente delicate, distorcendo l’aspetto reale, inclinando e allungando leggermente le forme, per raggiungere un equilibrio pittorico, scopo principale della sua ricerca.

I PRIMI ANNI – Paul Cézanne, di lontane origini italiane, nacque il 19 gennaio 1839 a Aix-en-Provence da una famiglia piuttosto benestante, che gli permise fin da subito di studiare nelle migliori scuole. Uno dei suoi amici e compagno di scuola, fu infatti Émile Zola, con cui condivideva la passione per Victor Hugo e Alfred de Musset. Questa sua formazione spirituale improntata al romanticismo, influenzò particolarmente le sue scelte pittoriche. Dopo un breve soggiorno a Parigi con l’amico Zola e Jean-Baptistin Baille, Paul aprì il suo studio dio pittura a Aix, ostacolato dal padre ma incoraggiato dalla madre e dalla sorella. Ritornò a Parigi, dove frequentò un semestre all’Académie Suisse, visitando frequentemente il Louvre e il Salon, e facendo la conoscenza di pittori come Monet, Pissarro, Renoir e Sisley. Al Salon del 1865, quello che vide lo «scandalo» dell’Olympia di Manet, Cézanne inviò un’opera che venne però rifiutata, mentre Zola pubblicò il romanzo “La confession de Claude”, dedicato a lui e a Baille.

IL PERIODO IMPRESSIONISTA – Cézanne, prima di trasferirsi per due anni con la famiglia ad Auvers-sur-Oise, (nel frattempo infatti si era fidanzato ed era diventato padre) soggiornò alcuni mesi a Pontoise, il paese di Pissarro, col quale dipingeva en plein air. Il risultato più alto di questa esperienza, che è alla base del nuovo indirizzo intrapreso da Cézanne, è “La casa dell’impiccato”, che presentò alla prima mostra degli impressionisti nel 1874. Per quanto Cézanne accettasse l’impressionismo e ne condividesse gli obiettivi, non si identificava però totalmente con esso. Per certi versi infatti, Cézanne era più un pittore post-impressionista. Cézanne è famoso per il suo stile a macchia: dipinse a chiazze di colore, come se ogni pennellata fosse una tessera di mosaico, che acquista un senso solo quando è unita alle altre nel ricomporre un oggetto: usa cioè il colore per “costruire” le forme e per questo ogni pennellata è densa e stesa con energia.

L’ULTIMO PERIODO E LA MORTE – I continui insuccessi, tanto alle mostre degli impressionisti quanto presso i Salons ‘ufficiali’, che continuavano a respingere regolarmente le opere che Cézanne si ostinava ad inviare, lo portarono a un periodo di isolamento, aggravato anche dai contrasti con il padre il quale, già disapprovando la convivenza del figlio con Hortense, quando venne a conoscenza della nascita del bambino, giunse a ridurgli gli aiuti economici che fino ad allora non aveva mancato di fargli pervenire. Morì solo il 22 ottobre 1906 senza aver mai davvero raggiunto il successo che avrebbe meritato in vita. Come spesso accade, nel febbraio del 1907, al Salon d’Automne, gli fu dedicata una imponente retrospettiva commemorativa, che sconvolse un’intera generazione di nuovi artisti (tra cui Picasso e Modigliani), e che pose le basi del cubismo, aprendo le strade alle avanguardie artistiche del Novecento.

I SOGGETTI – Accanto alle celebri nature morte e ai paesaggi, soprattutto quelli della sua amata Provenza, Cézanne dipinse numerosi ritratti, attente indagini psicologiche ma anche forma di celebrazione del personaggio dipinto, poiché ne viene descritta l’importanza sociale, la ricchezza o una qualche passione come il collezionismo. Per i suoi ritratti posano amici come il mercante Ambroise Vollard e il collezionista Victor Choquet, o i familiari, come il padre, lo zio, la moglie Hortense, il figlio Paul. Più spesso però i modelli di Cézanne sono personaggi umili: contadini, cameriere o semplici paesani incontrati al caffè.

Salvador Dalì, il surrealista paranoico-critico

Salvador-Dalì-Pan-mostra-NapoliDalì ha definito il suo metodo artistico paranoico-critico e i temi prediletti erano quelli psicanalitici dell’inconscio, del sogno e della sessualità.

L’artista catalano Dalì (1904-1989) era solito dire che i genitori lo avevano chiamato Salvador, perché era destinato a salvare la pittura minacciata di morte dall’arte astratta, dal surrealismo accademico, dal dadaismo e in genere da tutti gli ‘ismi’ anarchici.
In realtà, i genitori lo chiamarono esattamente come il fratello maggiore morto alcuni anni prima a causa di una meningite e fu considerato dagli stessi come una reincarnazione di quel fratello mai conosciuto. La sua infanzia trascorse in una casa piena di foto di quel fratello morto, protetto sia dal padre, sia dalla madre, che temevano di perdere anche lui.

A sei anni voleva diventare ‘cuoca’ (usava il termine al femminile); a sette Napoleone; a dieci scopriva gli impressionisti; a diciotto iniziò gli studi all’Accademia di Belle Arti a Madrid ed andò a vivere nella Residencia de Estudiantes, dove conobbe, tra gli altri, lo scrittore Federico Garcia Lorca, con cui strinse un’intima amicizia. Ben presto quest’amicizia si trasformò in una passione amorosa da parte del poeta di Granada e la cosa turbò Dalì, che, ne “Les Passions selon Dalì” (1968) scrisse:

Quando Garcia Lorca tentò di possedermi, mi rifiutai a lui con orrore.
Dall’inizio del 1927 l’artista catalano si trasferì a Parigi.

Nell’autobiografia “La mia vita segreta” il pittore racconta:

Arrivai a Parigi….presi un taxi e domandai all’autista: ‘Conosce dei buoni bordelli?’. Se non tutti ne visitai un numero piuttosto impressionante e alcuni mi piacquero oltre misura.

La personalità provocatoria e gli atteggiamenti stravaganti di Dalì, oltre alle sue opere piene di allusioni sessuali, incuriosirono il gruppo dei surrealisti parigini; conobbe René Magritte e sua moglie, Paul Éluard, (la guida intellettuale del movimento surrealista) e sua moglie Gala. Salvador rimase affascinato da Gala, i due, ben presto, divennero amanti e, successivamente, marito e moglie. E’ Dalì stesso a fornire la chiave interpretativa freudiana di questo grande amore, che dominerà la sua opera fino alla fine:

Era destinata ad essere la mia Gradiva (‘colei che avanza’), la mia vittoria, la mia donna. Ma per farlo, bisognava che mi guarisse. E mi guarì, grazie alla potenza indomabile e insondabile del suo amore, la cui profondità di pensiero e abilità pratica surclassavano i più ambiziosi metodi psicoanalitici.

Il loro rapporto fu molto intenso e turbolento, vissero il matrimonio in maniera promiscua, la loro passione fu totale e surreale.

Amo Gala più di mia madre, più di mio padre, più di Picasso e perfino più del denaro. Ero l’incarnazione delle sue visioni oniriche e fantastiche…Ero letteralmente attratta dalle sue stranezze e stravaganze che non ebbi alcun dubbio di separarmi da mio marito. Lui aveva 11 anni meno di me. Ci sposammo tre anni dopo il primo incontro

– racconta Helena Diakonova, detta Gala.

Il rapporto di Dalì con il Surrealismo
Nel 1930 Salvador entrò ufficialmente a far parte del movimento surrealista e, nell’ambito del Surrealismo, fu l’artista che più di ogni altro riuscì a sviluppare saldi legami teorici con la psicoanalisi. Il Surrealismo era per Dalì l’occasione per far emergere il suo inconscio, secondo il principio dell’“automatismo psichico” teorizzato da André Breton, il padre del movimento. E alla sua particolare tecnica di automatismo, l’artista diede il nome di “metodo paranoico-critico”.

Dalì definì la paranoia come

una malattia mentale cronica, la cui sintomatologia più caratteristica consiste nelle delusioni sistematiche, con o senza allucinazioni dei sensi. Le delusioni possono prendere la forma di mania di persecuzione o di grandezza e ambizione.

Il metodo paranoico critico e l’opera “La persistenza della memoria”
L’attività paranoico-critica venne definita dallo stesso pittore come

un metodo spontaneo di conoscenza irrazionale basato sull’associazione interpretativo-critica dei fenomeni deliranti.

Come esempio di questo procedimento, vorrei considerare una delle opere più famose di Dalì, “La persistenza della Memoria” (più nota, forse, come il “quadro degli orologi molli”): si tratta di un dipinto del 1931, oggi conservato al Museum of Modern Art di New York. L’opera è incentrata sul concetto di tempo, rappresentato, appunto, dagli orologi. Dalì, in “La mia vita segreta” (1942), racconta in questo modo la genesi dell’opera:

E il giorno in cui decisi di dipingere degli orologi, li dipinsi molli. Ciò avvenne in una sera in cui ero stanco. Avevo l’emicrania, il che mi accade raramente. Volevamo andare al cinema con alcuni amici e all’ultimo momento decisi di restare a casa. Gala uscì con loro, mentre io mi coricai presto. Avevamo concluso la nostra cena con un camembert eccezionale e, allorché fui solo, rimasi ancora per un momento seduto a tavola pensando ai problemi che mi poneva il “supermolle” di questo formaggio. Mi alzai e mi recai nel mio studio, per gettare un ultimo sguardo al mio lavoro, come era mia abitudine. Il quadro a cui stavo lavorando raffigurava un paesaggio nei dintorni di Port Lligat, le cui rocce sembravano illuminate dalla luce trasparente del crepuscolo. In primo piano avevo dipinto un ulivo, dei rami tagliati e senza foglie. Questo paesaggio doveva servire di sfondo ad una nuova idea, ma quale? Cercavo un’immagine sorprendente, ma non riuscivo a trovarla. Spensi la luce, e uscii dalla stanza e in quel preciso momento “vidi” letteralmente la soluzione: due orologi molli, uno dei quali pietosamente appeso a un ramo dell’ulivo. Malgrado l’emicrania, preparai la mia tavolozza e mi misi all’opera. Due ore dopo, allorché Gala tornò dal cinema, il quadro, che sarebbe diventato una delle mie tele più famose, era finito…

Gli orologi molli nacquero dunque da una suggestione provocata dal camembert, il formaggio francese che l’artista definisce “supermolle” e che spinge lo stesso a meditare “sul problema filosofico della ipermollezza posto da quel formaggio”. Secondo il metodo paranoico-critico seguito da Dalì, gli orologi molli sono il prodotto di una visione irrazionale e ci forniscono una nuova lettura del Tempo, diversa dal tempo meccanico. Il tempo meccanico è quello che scandisce i secondi, i minuti, le ore, (gli orologi duri), mentre gli orologi molli sono inseriti in un contesto in cui non accade nulla ed il tempo è come fermo. Il tempo, inteso come la successione meccanica di istanti, dunque, viene messo in crisi dalla memoria umana che, del tempo, ha una percezione poco razionale. In questo modo l’orologio, oggetto orribile che scandisce la successione dei minuti della vita dell’uomo, diventa molle come un camembert nel suo momento migliore, quando incomincia a colare.

La psicoanalisi nelle opere di Dalì
Dal metodo paranoico-critico derivarono tantissime opere di Salvador, tra cui le celebri: “Autoritratto molle con pancetta fritta” (1941) , “Ritratto di Picasso” (1947), L’aurora” (1948).
Paranoico-critico è anche “Sogno causato dal volo di un’ape intorno a una melograna, un attimo prima del risveglio” del 1944, il cui titolo è, di per sé, esplicativo. E’ un’opera, tra le tante, in cui è raffigurata la moglie dell’artista, Gala. L’ispirazione del quadro venne al pittore dalla puntura di un’ape mentre stava dormando. Provò dolore mentre dormiva e, in quel momento di incoscienza, provò delle sensazioni ingigantite e così l’istante della puntura è rappresentato dalla punta di una baionetta che sta per trafiggere il braccio della donna nuda, mentre il momento del dolore è rappresentato dalle tigri inferocite che fuoriescono dalla bocca di una pesca, che, a sua volta, sorge da un melograno. Dalì dichiarò più volte di voler immortalare la vita onirica, realizzando ciò che lui definì delle “fotografie dei sogni dipinte a mano”: con quest’opera l’artista fece qualcosa in più, ovvero riuscì ad illustrare magistralmente un meccanismo mentale indagato da Freud, cioè l’effetto che uno stimolo esterno, percepito durante il sonno, produce su ciò che stiamo sognando, a dimostrazione del fatto che nelle opere dell’artista catalano si ritrovano tutti i capisaldi della teoria freudiana: l’inconscio, il sogno, la sessualità.

Ronaldo? Vale più del Salvator Mundi di Leonardo Da Vinci

4342.0.32020893-0031-kF7B-U3000164240269Xy-1224x916@Corriere-Web-SezioniLa cifra record per il calciatore a cui andranno 30 milioni di euro netti l’anno per quattro anni. Un’operazione che vale complessivamente 400 milioni di euro, più della cifra sborsata alle aste di Christies’s per il Salvador Mundi attribuito al maestro Da Vinci

Un «capolavoro manageriale» che farà felice il mondo bianconero e «un’occasione unica per tutto il calcio italiano» perché l’arrivo di Ronaldo a Torino «è l’acquisto più bello, mancava una cosa così dai tempi di Maradona». Così Walter Veltroni, tifoso juventino, ha commentato l’operazione dei record con cui Cristiano Ronaldo, 33 anni, è passato dal Real Madrid alla Juventus. Un’operazione che vale in totale circa 400 milioni di euro se si prendono in considerazione i 30 milioni netti l’anno per 4 anni che andranno al calciatore e le commissioni per il suo agente Jorge Mendes. Per averlo, il club bianconero sborserà 100 milioni che andranno al Real, gli altri 12 serviranno per il «contributo di solidarietà previsto dal regolamento Uefa» e gli «oneri accessori». Ma in totale la squadra degli Agnelli dovrà spendere per l’ingaggio più di 350 milioni di euro. Nel 2017 una cifra del genere è servita per comprare a New York il celebre Salvador Mundi attribuito al maestro Da Vinci che è stato battuto per la cifra record di 450,3 milioni di dollari (circa 380 milioni di euro, compresi i diritti di asta), un record per qualsiasi opera d’arte. Più delle Donne di Algeri di Picasso battute da Christie’s per 179,4 milioni nel 2015. Ma i paragoni possono essere infiniti. L’affare Ronaldo vale ad esempio quanto tutta la capitalizzazione di Borsa, per restare in ambito calcistico, della A.S.Roma.

Cifre esagerate? Non proprio se si guarda all’operazione finanziaria e a quello che significa, in termini di bilancio, per una squadra come la Juve. Rispetto all’ultimo bilancio disponibile, quello di giugno 2017, l’arrivo di Cristiano Ronaldo potrebbe significare per la Juventus un aumento dei ricavi fra i 100 e i 130 milioni di euro all’anno, a partire dal bilancio 2019-2020. È la stima del Global Head of Sports di Kpmg, Andrea Sartori. «Da un punto di vista finanziario – ha spiegato Sartori – si tratta di un’operazione molto intelligente. Bisogna considerare che ci sarà un incremento dei ricavi da stadio, fra abbonamenti e biglietti, e un incremento delle sponsorizzazioni. Poi ci sono i diritti tv per la Champions, che valgono fra i 20 e i 25 milioni, rispetto alla stagione attuale, se la società arriva almeno ai quarti. Certo, tutto questo sarà influenzato tantissimo dal successo sportivo della squadra, specie in Champions». «Un nome come Ronaldo – ha aggiunto – può aprire alla Juve le porte di un mercato unico. I bianconeri hanno 50 milioni di followers fra Facebook, Instagram, Twitter e Youtube. Ronaldo ne ha 322 milioni».